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Al bar dell'orologio - 01 - Mario

Dovevamo incontrarci al bar alle quindici ma Maria Grazia non arrivò.

L’aspettai sino alle quindici e trenta poi Mario, il proprietario del “Bar dell’orologio” in piazza Duomo dov’ero seduto ad attenderla, m’avvertì che “Maggie” era al telefono e voleva palarmi.



Bel tipo Mario, un quarantino giovanile coi baffi larghi e poco curati, capelli neri e lunghi, legati dietro da un elastico; sempre sorridente e con una Marlboro accesa tra le labbra.

La moglie l’aveva scaricato da sei mesi per andare a vivere con un altro, molto più giovane, lasciandogli il figlio Piero, un moccioso dai capelli biondi e dal pianto facile che, durante l’orario di apertura del bar, stava con la nonna, la mamma dell’ex moglie di Mario, che gli era rimasta accanto non condividendo la scelta della figlia.

Mario era proprio forte. Ottimista e simpatico amava parlare e dare confidenza a tutti e, noi ragazzi che frequentavamo con assiduità il suo bar, lo consideravano un amico di cui fidarsi, quasi un fratello maggiore.

Mario sapeva ascoltare, partecipava con sincerità e, quando serviva, sapeva anche dare un consiglio.

Era tifoso dell’Inter e, questa passione, a me lo rendeva ancora più simpatico ché anch’io ero già da allora, e sono tutt’ora, tifoso di questa sfortunata e meravigliosa squadra di calcio.

Era anche comunista, Mario, di quelli dello zoccolo duro, comunista convinto. Credeva in un mondo migliore, in una società senza frontiere, nell’amore libero, nella giustizia e nella pace, anche se non aveva mai letto “Il Capitale” e nemmeno “Il Manifesto”.

Durante gli scioperi Mario chiudeva sempre il bar e andava in piazza insieme agli operai e agli studenti “Studenti, operai, uniti nella lotta” per cambiare la società e dare voce e dignità alle classi disagiate.

E Mario di disagi ne aveva subito tanti, poverino, più di altri, anche se non amava parlarne.

Quand’era piccolino il padre s’era suicidato (pare una questione di corna) e la madre, pentitasi, l’aveva seguito nell’altro mondo, dopo neanche un mese, scegliendo la stessa sorte. Mario era così rimasto con l’unico fratello, Luigi, più grande di una anno, e una sorella, Mara, di un anno più piccola e s’era dovuto occupare dell’uno e dell’altra ché il primo soffriva di depressione e, l’altra, era troppo piccola per badare a se stessa.

Purtroppo anche Luigi, qualche anno più tardi s’era suicidato, gettandosi da un ponte, e Mara, diventata grande, aveva sposato un buono a nulla, ubriacone, violento e delinquente. Un cognato che Mario, per fortuna sua e, sopra tutto della sorella, non vedeva da anni ché li aveva lasciati, nonostante fosse padre di tre bambini, per andare a vivere all’estero.

L’esistenza di Mario era stata un vero e proprio disastro ma, ciò nonostante, Mario era sempre sorridente e sembrava amare la vita anche se delle sue vicende ne parlava raramente.

- E’ tutto Ok – diceva – si tira avanti e il cielo, come canta Rino, è sempre più blu…

Si riferiva alla canzone omonima di Rino Gaetano, il cantante calabrese scomparso in un incidente stradale che all’epoca cantava “Berta Filava” e “Gianna”.

Avevo un sacco di cose in comune con Mario e lo adoravo. Con lui parlavo di tutto. Del tempo, della scuola, di calcio, di politica e, sopra tutto, delle delusioni della vita e dell’amore. Mario aveva sempre pazienza ed era sempre disponibile ad ascoltare. Con Maria Grazia, aveva sempre avuto un rapporto particolare, quasi confidenziale. La conosceva da anni perché era originario del suo stesso paese e le voleva bene più di un fratello.



Raggiunsi il telefono e Maggie mi spiegò d’aver perso la corriera e che aveva invano cercato di fare l'autostop.

- Non so proprio come fare per arrivare, ci vediamo domani, perdonami amore – concluse.

Alle quindici e trentacinque ero per via Venti Settembre a ciondolare tra le vetrine per ingannare il tempo in quel pomeriggio che non prometteva niente di buono.

Dovevo aspettare le diciannove per la corriera e per strada a quell’ora non c’era un cane.


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